uochi toki - mi sveglio da straniero in un luogo mai visto prima, tuttavia, lyrics
in pochi secondi, molti anni. svegliarsi -ssomiglia, ha gli stessi effetti del non ancora scoperto teletrasporto: il p-ssaggio dal mondo in cui il punto ed il momento non esistono al mondo del causa-effetto, sillogismo e tempo lineare. le prime linee come linneo alludono a una cl-ssificazione dei dati di tipo sensoriale: sono sdraiato nel caldo, immerso nella luce, colpito alle spalle da un mater-sso a molle impertinente atroce. l’umidità di un’aria controllata altrove mi comanda di cercare acqua, di scostare la coperta. una sega circolare: il mio compare di fianco a me che russa. soffitti alti e letti livello terra: è un’ospitalità, una finestra a fine marzo fa sì che io mi alzi alle nove e mezzo, anche se la sera prima ho preso parte a quello che siamo soliti dire “concerto”. in verticale, equilibrio, scarpe, fame, stanza, zaino, pavimento, legno rumoroso; un trapezio appeso pende dal soffitto, una porta che non conosco, prese elettriche che differiscono. il problema “dove sono, dove mi sono svegliato?” si fa molto interessante. dal corridoio al bagno, dallo scricchiolare del pavimento in legno a un odore di campagna – mi ricordo adesso, so dove mi trovo: è un appartamento nel centro di lubiana, slovenia, città con boschi attorno e poco hinterland. ieri sera abbiamo suonato al metelkova, un complesso di locali autogest-ti con in mezzo una piazza senza memoria storica. la mia mano sulla maniglia della porta del bagno – per cena abbiamo mangiato minestra, abbiamo fatto domande a gente che parla una lingua diversa per scoprire come comportarci quando anche da noi verrà la guerra. la porta del bagno è aperta, e, mentre penso alla tranquillità complessa di chi ieri sera ci ha dato una risposta, un maiale – sì, un suino – mi corre incontro. vi -ssicuro che non stavo sognando
con la chiave apro la porta, con la scala sfrutto la forza di gravità, con la strada non mi perdo. mi aggiro per lubiana: non capisco una città solo p-ssandoci il fine settimana, men che meno quando la mia padronanza della lingua slava è limitata ai termini come “umri”, “dobrot”, “crkni”, “voda”, e il mio blocco d’imbarazzo m’impedisce di gettarmi in un discorso in finto inglese, rischiando che le mie richieste siano troppo complesse rispetto alle poche parole sent-te e lette nella lingua del yes. cerco una panetteria con prodotti e prezzi ben esposti, in modo da potermi esprimere a gesti, versi, sgranate d’occhi. quando sono accompagnato mando avanti gli altri, poi mi inserisco nei contesti. ho problemi a chiedere persino in italiano, che irrisolti, ma tappati con degli espedienti, si ripresentano con degli accenti già quando gli abitanti parlano dialetti. compro dolci austroungarici facendo gesti con le dita. ieri sera sotto il palco la gente era molto ricettiva, e questo basta a compensare la diversità linguistica con la disattenzione di molti collinguanei, che costruiscono muri con l’onestà intellettuale, con un’idea impersonale di spontaneo e naturale. se qualcosa non vi è chiaro, fate domande, non fate discorsi! generazioni intere di devoti dei dualismi, generazioni intere di devoti delle generazioni – sono le barriere dei patriarchi nei confronti di noi maghi. voi non siete persone, non siete dialoghi, siete solo allenamento costante per me che so già di cosa sto morendo, io che sono consumato nel nervo, non nel nerbo, genero forza motrice anche dal vento e dalla forma di un c-mulonembo, da questo strudel caldo pieno di semi di papavero. mi perdo nei vicoli di queste case ignote, con le tegole quadrate, sottili, sfasate. strada princ-p-le, negozi come ovunque, cielo grigio perla. qualcuno parla, commercia, tratta. levo il filtro dell’esotico, immagino che questa sia la mia città natale, le strade che frequenterei, le case lungo il fiume. chi sarebbero i miei amici se io abit-ssi qui? quali mezzi pubblici preferiti? quali luoghi nascosti obliqui? e con quale lingua renderei i miei pensieri comprensibili? quanti mesi – anni? – per adattarmi agli abitanti? i miei sacchetti di leccornie comandano i miei p-ssi, mi dicono: “smetti di immaginarti. torna a fare colazione con gli altri, ricaricati e riparti!” i miei ritorni sono i percorsi contrari e rovesci di quelli appena fatti e, mentre sono a pochi angoli dalla casa dei miei ospiti, la mia sorpresa si trasforma in elemento: diventa il cappotto giallo indossato da un veloce soggetto fatto di capelli, collo, gambe, p-sso, e un colore intenso e scelto, un panno morbido, deciso, caldo, avvolge un corpo che non identifico in altro modo se non “ragazza”. non faccio a tempo a perdermi nelle opinioni inutili sulla bellezza per la troppa fretta, ma vorrei fermarla e dirle che la sua scelta determina molte più cose delle caratteristiche fisiche a lei date dall’ordine spontaneo e naturale. non riesco a fermare una ragazza così, dal niente: temo sempre che non capisca quel che io voglio da lei, temo sempre che sovrapponga i pensieri degli altri ai miei, e poi, in inglese, a gesti, potrei soltanto fare disastri… cosa dico?
“excuse me miss, hey girl! i saw you walking on this little street, strictly for fit. i want only tell you that i was impressed by the color of your long jacket: i think that the choice of a color for a girl is more important than the somatical beauty, because you can choose the color of your clothes, but you can’t choose the shape of your nose. i love your human side, that is best expressed in this warm yellow.”
sì, è molto stupido, però, adesso che ci penso, avrei molta più difficoltà a spiegare la magia in italiano, a un italiano, quindi, in rapporto alla magia, posso fare qualunque cosa, anche toccare un ragno, o presentarmi a una ragazza, anche toccare una ragazza, presentarmi a un ragno
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